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Channel: Tuning Maze 3.0
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Jumbo – 1983 Violini D' Autunno (1992)

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Leggendo i primi Rockerilla che compravo, ad inizio 1993, ero suggestionato dalle pubblicità della Mellow Records, dalle copertine e persino dai titoli. Violini d'autunno era uno di quelli che m'incuriosiva di più, lo trovavo molto bello ed evocativo. Soltanto anni dopo avrei ascoltato i dischi "famosi" dei Jumbo, un gruppo atipico per l'It-Prog soprattutto per la voce grassa ed imponente di Alvaro Fella, ma che non mi ha mai veramente entusiasmato. E "soltanto" 24 anni dopo ascolto Violini d'autunno, quasi per sfizio; col tempo ho imparato che Moroni della Mellow è stato molto generoso nei confronti dell'it-prog, andando a recuperare titoli rari e preziosi (ma a volte anche dispensabili, a dirla tutta); uno su tutti, il live 1977 della Locanda Delle Fate.
Invece di Violini D'autunno probabilmente non è mai fregato nulla a nessuno, soprattutto ai progsters, ed ha tutte le carte in regola per fregiarsi del titolo di brutto anatroccolo nel catalogo della fu etichetta ligure; qualità sonora piuttosto bassa, risalente al decennio per antonomasia di esilio del genere, totalmente scevro da componenti prog e quindi diversissimo da quanto realizzato in precedenza dalla band milanese.
In pratica andò che nel 1983 i Jumbo si riformarono per poco e registrarono una manciata di pezzi piuttosto lo-fi, rimasti in un cassetto per quasi diec'anni. E' facile intuire per quale motivo non potessero interessare a nessuno al tempo; si trattava di un funk-wave sanguigno e ritmico che, soprattutto in Italia, non aveva nulla a che fare con i generi in voga. Non si tratta certo di un capolavoro, ma lo trovo molto divertente e a modo suo ricercato, grazie alle ritmiche sincopate, alla chitarra torrenziale ed alla voce trascinante di Fella che a mio avviso funzionava molto meglio in questo contesto rispetto a quando scandalizzava fino alla censura il pubblico del prog nel 1972. Qui addirittura diventa dissacrante per i testi surreali, ai limiti dell'assurdo. Una gradevole curiosità.

AFX ‎– Analogue Bubblebath Vol. 3 (1993)

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Il terzo di 6 della lunga serie che inaugurò, nel 1991, il folgorante inizio carriera di Richard D. James. Questo lo preferisco per una questione affettiva, perchè la traccia iniziale, .215061, marchiava a fuoco una delle mie primissime Mental Hours; un ipercinetica folata galattica il cui loop maggioritario di synth riportava da morire alle trame storiche dei Tangerine Dream, escluse le micropunte glitches. In generale, Vol. 3 non era un assemblaggio variopinto quanto le coeve raccolte a nome Aphex Twin, bensì indugiava di più sui ritmi ad alto tasso di bpm, al cardiopalmo; i riff di figure meccaniche informi dominano la scena, ed a causa di ciò risaltano ancor di più i pochi momenti veramente musicali: la succitata, la splendida pausa pastorale di [cat 00897-AA1] (Fluted), il giro ossessivo di .000890569, sempre mutuato dai giganti tedeschi. Ottundente.

Stray Ghost - To Make Ends Meet (2015) + A Closed Dialogue (2016)

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Due pubblicazioni esclusive su Bandcamp per Anthony Saggers, da ritenere episodi a corredo ma non secondari, come avverte con cura l'inglese sulla didascalia di A Closed Dialogue: trattasi di composizioni che per motivi tematici restano fuori dagli album ufficiali, ma la qualità non è assolutamente inferiore.
To make ends meet, 20 minuti per tre tracce. Il lento sgocciolio pianistico di For Nima, il balletto autunnale con feedback in sottofondo di Frequency Repeat, il loop cameristico struggente di Sonata for hope deprived. Tre varianti diverse della scrittura commossa e iper-umana di questo ragazzo che mi fa commuovere.
A Closed Dialogue, della lunghezza di un album vero e proprio, rilancia le emozioni come ricordi sfocati e nostalgici. In larga parte per quel piano così nudo e scarno, contiene temi estatici dalle partiture così disarmanti che ormai non è quasi più musica, è lo specchio dell'anima. Memorabili A hole in the heart, A mirror for happiness e la suite in 3 parti Burgundy Tape.  
L'ossimoro prolificità = desiderio si materializza come per incanto.

Black Sabbath ‎– Walpurgis - The Peel Session 1970 (2012)

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Clamoroso bootleg ripescato qualche anno fa e dato alle stampe in Finlandia (!) ad opera di una fantomatica Shadow Records, che documenta un breve live (e non una canonica session) che i Sabbath registrarono per John Peel il 26 Aprile 1970. Materiale che, immagino, non sia mai stato pubblicato a causa della resa sonora, che dopotutto non è cattiva ma soffre di secchezza e di mancanza totale di riverberi. Il gruppo suona compattissimo e le esecuzioni sono impeccabili: Black Sabbath, allungata fino a 9 minuti; Walpurgis, ovvero la versione originale di War Pigs da cui di fatto differisce soltanto per il testo; Fairies wear boots; una fenomenale Behind the wall of sleep, con inedita coda finale walking-jazz (!!). A chiudere il posticcio The Rebel, un demo del 1969, cover di un oscuro cantautore tal Norman Haines, gradevole ma segnale dell'acerbità in cui versavano i Sabbath l'anno prima di sganciare le bombe atomiche.
Poco da dire; qui si faceva la storia.

Silence ‎– Silence V (2001)

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La maggior parte dei suoi album è completamente trascurabile è una frase forte, specialmente se questi album sono una catasta immane. PS liquida così Pete Namlook sulla sua scheda, ed è una tesi che mi ha reso persino più curioso, seppur con moderazione, di estrapolare qualcuno di questi ed ascoltarli. Silence, ad esempio, fu uno dei tanti monicker a tema che si assegnò e con essò rilasciò 5 volumi fra il '92 ed il 2001. Fin troppo facile intuire che la collana riguardasse il lato più ambientale e rilassato del tedesco, per non dire Enoiano. Ed in effetti questo, l'ultimo della serie, è un album vaporosissimo e levitante che, vista soprattutto la data di uscita, ha fatto tutto tranne che innovare e/o sorprendere. Eppure.
Eppure la maestria del tedesco affiora, inevitabilmente; questi 5 pezzi lunghi dai 10 minuti in su sanno avvolgere e catturare con eleganza con dei temi semplici e ripetitivi, immersi in una spessa nuvola di synth. Ed alla fine una sorpresa c'è; sull'ultima traccia Picnic, intorno alla metà, appare un assolo di chitarra elettrica discreto e delicatamente virtuoso, e tramite la testimonianza di un musicista italiano che collaborò con lui negli ultimi anni prima della morte, scopriamo che codesto chitarrista era proprio Namlook.

Asmus Tietchens ‎– Nachtstücke (Expressions Et Perspectives Sonores Intemporelles) (1980)

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Primo atto di una serie infinita di lavori (più di un centinaio) da parte di questo compositore tedesco che, a quanto pare, ha costruito una carriera sulla ricerca della "musica assoluta". Un po' pretenzioso come concetto, no? Eppure lo stesso AT in un intervista ha tentato di smontare questo slogan che lo accompagna in tutte le presentazioni ufficiali, dando più che altro importanza al lavoro costante di ricerca che ha perseguito e continua a svolgere a tutt'oggi, indefesso.
E' probabile che ascolti altri uno/due titoli del suo repertorio, perchè Nachtstucke è un disco bizzarro e multiforme, fra avanguardia radicale di scuola francese (Henry/Schaeffer), corrieri cosmici, minimalismo, ambient, library, pseudo-sinfonismi elettronici e quant'altro. La particolarità immediata è già nel primo pezzo, Erstes: un carosello ipnotico che fa venire subito in mente il concetto di hauntology. Ma ci sono altri episodi nella scaletta che sono memorabili: il melodramma di Falter Lamento, le allucinazioni pastorali di Viertes Nachtstuck e Lictherwald, il gelido rigore tutto teutonico di Ultima Tundra. Con più di un punto in comune col mio amato Tom Recchion, in versione colta.

Cazzurillo ‎– Greetings From Grinchland (2016)

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Su Blow Up SIB gli ha appioppato un bell'8/10 con tanto di spazio su cornice rossa, ma al suo interno, più che disquisire sul contenuto, ha divagato con uno strano pistolotto a sfondo musical-sociologico. Questo può essere un indizio concreto di come sia difficile descrivere l'essenza della musica di questa ragazza di cui non si sa il vero nome, ma si sa che è milanese, ha realizzato solo 3 pubblicazioni in 9 anni, si esibisce vestita e mascherata in modi bizzarri, e viene (auto?) definita one girl mess. Uno spirito libero, insomma, che nella propria espressione pura e semplice riesce a trovare la sua nicchia di originalità; in tempi come questi, un mezzo miracolo.
Greetings From Grinchland mette in mostra un pop acido che mescola con disinvoltura melodie cristalline (la voce sempre modulata, estremamente femminea) con suoni sporchi, fangosi, incursioni psichedeliche sopraffine, qualche spruzzata di elettronica povera e di hauntologia.
A far chiarezza in un complesso che potrebbe essere un po' nebbioso ci pensano i pezzi, davvero apprezzabili ed in qualche caso clamorosi: l'intensa emotività di Posers, l'ossessività sulfurea di Playcity, il treno lanciato a gran velocità di Bunny's bed. Non so perchè, ma mi è parso di scorgere un'affinità con Samuel Katarro, magari solo a livello ideologico o di sensazioni generate dall'ascolto. In ogni caso, una piccola rivelazione a sè stante, per il talento genuino e perchè staccata da qualsiasi tendenza e/o scena corrente.

Felt ‎– The Strange Idols Pattern And Other Short Stories (1984)

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Fece il paio con lo splendido Splendour of fear, uscito nel Febbraio dello stesso anno, a consacrare l'entrata nell'olimpo dell'indie-pop cristallino, dopo l'esordio sulla lunga distanza di un paio d'anni prima, già indicativo ma ancora un pochettino acerbo. The strange idols, rispetto al precedente, fu meno autunnale ed atmosferico, più baldanzoso e frizzante, più wave se vogliamo. Ma il concetto di fondo non cambiava; 9 grandi, grandi canzoni di presa immediata, con gli stessi ingredienti ma con la forza trainante della sezione ritmica in evidenza, ed il basso di Lloyd che sgusciava ovunque. 
Almeno 3 sono da best of assoluto: Vasco Da Gama, Whirlpool vision of shame, Sunlight bathed the golden glow. Lawrence sognava ancora il successo, Deebank arabescava a modo suo, il binomio compositivo faceva faville. Sarebbe durata ancora poco, purtroppo.

OOIOO ‎– Feather Float (1999)

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Il side-project easy-listening dei Boredoms, impersonificato dalla batterista Yoshimi P-We e dalle sue collaboratrici, più o meno stabili nella storia ormai ventennale. Easy-listening in confronto alla band madre, ovviamente; la sensibilità femminile virata all'esotismo è la chiave di volta per questo psych-rock nerboruto e propulsivo, giocoso e trascinante. Le armonie vocali, allungate e declinate in cori di tutte le maniere, sono dolci e sognanti; la macchina ritmica indugia spesso su un motorik di chiara derivazione tedesca. Ma c'è spazio anche per cantilene spaurite, dall'afflato quasi ritualistico, e per squisite gag a base di strumenti giocattolo. I Goat hanno prelevato parecchio da questo stile, se non altro a livello di concetto. Molto gradevole.

Ghost ‎– Lama Rabi Rabi (1996)

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Il capolavoro riconosciuto dei Ghost, almeno per quanto riguarda la loro prima fase. Una sublimazione di folk, psichedelia, esotismi di svariate provenienze, di un eleganza formale e di un ispirazione che hanno del sovrannaturale. Un disco sfaccettatissimo, ma attenzione, tutt'altro che una semplice fiera dello strumento etnico; le ballad più canonicamente acustiche brillano di una luce abbagliante (Into the alley, Agate Scape, Summer's ashen fable), a dimostrazione che la band di Masaki Batoh sapeva far vibrare forte certe corde dell'anima. Musiche che non si limitavano a guardare il passato, ma che facevano da filtro per una spiritualità priva di ogni confine, men che meno quello giapponese.

New Year ‎– The End Is Near (2004)

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Ricordo distintamente, quando vidi in negozio (dal Pig, ovvio) The End Is Near, le mie sensazioni: solita cover laconica, inespressiva e vacua, ed al primo ascolto figurarsi se i fratelli Kadane osassero mescolare le carte in tavola. Neanche Chris Brokaw, se avesse voluto, ce l'avrebbe fatta a convincerli. Ma chi l'avrebbe voluto, in fondo? 
Comunque, fra la diavoleria di chiacchiere, il disco passava e neanche ce ne accorgevamo. Tutto qui, pensai. Sono i soliti, indefessi Kadane Bros, ciò che il loro pubblico vuole e che i detrattori detestano (ma esistono, poi?). Le due usuali manciate di pezzi alla loro maniera, alcuni memorabilied altri ordinari, scanditi dalla pigrizia e dai toni autunnali, con qualche impennata di energia, sempre con parsimonia. Ed un finale a sorpresa, l'ultimo minuto di Stranger to kindness in cui violino e glockenspiel fanno alzare la testa e pensare, ah, che gran gusto e che bel modo di chiudere il disco. La fine è vicina, il cd poi decisi di comprarlo ed ora l'ho venduto per pochi euro ma chissenefrega, gli anni passano e i Kadane Bros restano sempre amici fidati.

Fabio Celi E Gli Infermieri ‎– Follia (1973)

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Il dubbio legato alla reale data di registrazione determina quasi l'ago della bilancia; anche se viene sbandierato ai 4 venti che venne prodotto nel 1969, analisi più approfonditamente tecniche hanno supposto che sia più realistico ipotizzare il 1972. In quel periodo, si sa, un'anno o due facevano una differenza abissale, anche in Italia. Sia come sia, Fabio Celi & Gli Infermieri erano un quintetto napoletano che realizzò questo Follia tramite una piccola produzione locale e vanno annoverati come una felice anomalia dell'It-Prog, in quanto erano slegati dalle correnti dominanti; una specie di hard-beat caratterizzato dall'accoppiata piano+organo, la chitarra tagliente, le ritmiche serrate e la voce declamante che si amalgamavano alla perfezione nonostante una produzione davvero misera. Una metà della scaletta è pressochè memorabile, grazie alle irresistibili Follia, Il Capestro, L'artista sadico; gli unici paragoni possibili a livello concettuale sono il Banco del primo ed i Metamorfosi di E Fu il sesto giorno, ragion su cui si fonda la considerazione iniziale. Di sicuro arrivarono prima del Biglietto Per L'Inferno, che approfondirono queste coordinate con successo sull'esordio del 1974. Nota speciale per le liriche, che vertevano su denunce sociali nude e crude al punto di guadagnare la censura di Mamma Rai.
La ristampa Mellow del 1996 aggiunse un singolo del 1971, nettamente inferiore come qualità nonostante una registrazione più professionale.

Ubzub ‎– Triple Alien Threat (1998)

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Secondo ed ultimo disco degli Ubzub, seconda ed ultima mattanza di free-acid-freak-out senza ritegno e senza vie d'uscita. Rispetto al monumentale debutto sulla lunga distanza, l'eruzione si fa meno Chrome, più Residents e Throbbing Gristle, ma il formato non cambia: una moltitudine di tracce che brancolano su un teatrino demenziale dell'assurdo. Ma come brillantemente scriveva SIB in occasione della già citata intervista nel 2008 a Rob Williams, al di sotto di queste gag corrosive si nascondeva un'animo pop, nella stessa accezione residentsiana, se vogliamo: sostanzialmente gli Ubzub scrivevano pezzi compiuti, che finivano però in un tritacarne atomico che distorceva e mandava al macero tutte le eventuali melodie concepite ed i loro accessori. Quel che è certo è che lo humour corrosivo la faceva da padrone. Geni spostati.

King Crimson ‎– USA (1975)

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L'epitaffio del Re Cremisi prima fase, registrato a New York nel giugno del 1974 e fatto uscire a scioglimento già bell'annunciato. Non era difficilissimo surclassare il suo predecessore, il controverso Earthbounddi 3 anni prima; fattosta che si trattava in sostanza di due gruppi differenti. Com'è noto, la fase '73-74 fu non soltanto la migliore tecnicamente, ma anche la più innovativa ed ambiziosa; che poi nell'immaginario collettivo non resti particolarmente scolpita, forse deriva dal fatto che si tratta di materiale ostico, con ben poche concessioni alle melodie e ad inni come quelli della prima ora.
Per quanto riguarda USA, è semplicemente uno spettacolo; si dice che non sia perfetto, ma perchè pretendere la perfezione? Di fianco a Fripp, i mostruosi Bruford e Wetton (quasi incredibile per come riesce a cantare e contemporaneamente suonare il basso con quella perizia) rubano quasi la scena con una presenza immensa. Cross si ricava la sua posizioncina con ardore, scalando a fatica quella montagna che fu trovare spazio in mezzo a cotanti assi. Il materiale è tratto dal trittico di questa line-up, con la ciliegina dell'evergreen 21st century schizoid man, in una versione fantasmagorica, con Fripp che fa la parte del sax.

Scream From The List 63 - Tomorrow's Gift ‎– Goodbye Future (1973)

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Uno dei casi in cui c'è incertezza sul disco da scegliere. Audion cita Goodbye Future, secondo ed ultimo album dei tedeschi, ma pare che Stapleton non lo conoscesse all'epoca della compilazione. Il debutto, risalente a tre anni prima, era stato realizzato da un sestetto con tanto di vocalist femminile, ed era già abbastanza peculiare per l'epoca. Con la line-up dimezzata e parzialmente rimescolata (cambio di batterista, invariati bassista e tastierista), i TG virarono su uno psych-prog strumentale ancora più bizzarro e personale, con punte di eccellenza, che definire jazz-rock è azione piuttosto superficiale. In Goodbye Future convivono diverse tendenze; elucubrazioni alla Soft Machine più cupi (l'organo distorto alla Ratledge è l'elemento di raccordo), escursioni vagamente pinkfloydiane nel senso più avventuroso del termine, numerelli di puro progressive tornitruante, il tutto condito da quel senso di teutonica imponenza e solennità che è puro dna di cui sono intrisi i figli della seconda guerra mondiale. Per questo competente eclettismo e scategorizzazione ovviamente sono finiti nel dimenticatoio, all'ombra poi dei giganti connazionali. Ma ciò non toglie che si tratti di un ottimo disco.

Knife - Shaking The Habitual (2013)

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Ho sempre pensato che i fratelli svedesi Dreijer fossero la trasposizione elettronica in assurdo dei Dead Can Dance degli anni Zero, pur senza avere un granchè in comune nello squisito aspetto musicale. Shaking The habitual è stato il loro (inaspettatamente, visto lo status ormai raggiunto dopo 15 anni di attività) canto del cigno, ed ha suggellato in qualche modo il percorso di ricerca su un'elettronica art-pop votata all'eclettismo ed al trasformismo. Un disco lunghissimo, teso ed ossessivo, che privilegia i ritmi e le mutazioni camaleontiche, le ricerche vocali, con qualche pausa meditativa ed un po' di goticismo spiritato (a riallacciarsi con i DCD, guarda un po'). Occorrono diversi ascolti per prendere familiarità, ma una volta ottenuta resta uno splendido commiato; massima stima per aver staccato la spina all'apice, un gesto mai scontato.

Sand – Desert Navigation (2011-1974)

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Reietti com'erano, i Sand non riuscirono ad andare oltre la pubblicazione di Golem ed hanno dovuto aspettare quasi 40 anni per vedere uscire le registrazioni che accumularono prima e dopo quel gioiello. Sono ben 4 i cd rilasciati dalla francese Rotorelief, che si è occupata di questa meritoria opera di riesumazione dall'oblio di materiali che, seppur inevitabilmente discontinui e disomogenei, danno una conferma della portata che ebbe il trio sassone sulle musiche future. Metà della scaletta è contemporanea alla realizzazione di Golem; Vulture I e II, doppio affronto di elettronica sulfurea e disturbante, forse la cosa più vicina a quel proto-industrial con cui vengono taggati spesso. La lunga cantilena di Desert Storm poggia su basi mediorientali. Due tracce sono del 1975; la splendida ballad acustica Burning House e la nevrotica Touch The Tyrants, che curiosamente mi ha ricordato i Cosmic Jokers. Appare un po' fuori contesto Tendrara (1982), unico ripescaggio di tutte le ristampe successivo al 1976. Siamo dalle parti di un electro-gothic con gelida voce femminile; l'effetto è molto valido, anche se era evidente che per i Sand il tempo era scaduto. La media finale è sempre buona, anche se resta il dubbio che una migliore compilazione di tutti i lotti avrebbe giovato alla resa finale.

Locrian ‎– Infinite Dissolution (2015)

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Una presenza più fisica, quella dei Locrian attuali. E' chiaro che rispetto ai devastanti esordi siamo di fronte a musiche meno avanguardistiche, il drone-metal che li ha fatti conoscere ha subito un processo di autocombustione e l'acquisto in pianta stabile del batterista Hess ha contribuito in maniera decisa ad un cambio di marcia drastico. Dopo il disco progressive, ecco quello epic-instru; Infinite dissolution gioca le sue carte sugli orizzonti ampissimi, sulle distese panoramiche, sulle alternanze pesantezza/solennità. Nonostante una falsa partenza black-metal, l'opener Arc of extinction, il percorso si snoda in maniera avvincente, fra Explosions In The Sky e Sunn O))), con la voce isterica che di tanto in tanto fa capolino, qualche azzeccatissima divagazione a stemperare la tensione (la sonata per mellotron ed usignoli di KXL II), e la potenza espressiva resa al massimo da una produzione perfetta. I detrattori li spingeranno ancor più giù dalla torre, ma io continuo a pormi la classica domanda: cosa mai avrebbero dovuto fare? Ripetersi all'infinito?

Clash - The Clash (1977)

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In occasione del quarantennale del loro debutto, ascolto un disco dei Clash per la prima volta nella mia vita. Per capire il motivo di questa omissione, devo compiere una serie di riflessioni personali; in giovane età non fui attirato in modo particolare dal punk classico anglosassone, a meno che non si parlasse dei primi Wire. E poi per me sostanzialmente il nome Clash significava quei 2-3 pezzi famosi in heavy rotation che di solito i dj mettevano nei locali alternativi poco dopo la fine dei concerti (sempre appaiati a Psycho Killer, Aca Toro, Sheena is a punk rocker ed altri) che mi facevano scendere la catena spirituale o comunque sgonfiavano di netto la tensione positiva accumulata; vedere la gente pogare su pezzi così poco significanti mi dava l'immediato desiderio di tornare a casa. Per questo, li ho sempre snobbati a piè pari.
Detto ciò, oggi non disdegno di certo questo disco di impatto storico; d'altra parte è sempre stato notorio che i Clash fossero band con una dote artistica importante ed andarono oltre il punk con brillantezza. La prima metà della scaletta è infuocata, divertente ed in fondo in fondo fatta di motivi pop declinati con tiro oculato e foga trascinante. Peccato che la seconda veda un declino della qualità piuttosto netto. Al netto di tutto, pezzi come Complete Control, White Riot, White Man in Hammersmith Palais e I Fought The Law restano memorabili. Oops: quest'ultimo era uno dei famosi tormentoni post-concerto. Effetto nostalgia?

Desertshore ‎– Drawing Of Threes (2011)

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Prima di reclamare il suo nome di fianco a Desertshore, Kozelek aveva già messo il suo pesante piedone nel progetto di Carney & Connolly, in occasione di questo secondo. Sarei curioso di sapere chi ha fatto il primo passo, ma solo per il puro sfizio di conoscenza; poco da dire, ne hanno guadagnato entrambi. Col pur gradevole primo, C&C sembravano destinati a restare in una nicchia di tappezzeria folk elegante ma sterile. Del declino inarrestabile e pluriennale di Mark-One ho già scritto fino allo sfinimento. Su Drawing of threes mette voce e testi nel 70% del lotto, e lievi brividi di sapore RHP ci scorrono lungo la schiena; sono sensazioni più inerenti alla seconda vita degli imbianchini, quella di Songs for a blue guitar e Old Ramon per intenderci, ma con spiccate eleganza e compostezza. Sarà merito anche di Connolly, che sembra quasi silente tanto è funzionale ma nel complesso strumentale è pressochè l'uomo in più. La scala di valori vede due perle da salvare e custodire nel miglior canzoniere kozelekiano e dintorni: la divina, delicatissima Turtle Pond e la complessa, articolata Mölle. A seguire l'elegia affranta di Vernon Forrest, le suadenti trame chitarristiche di Randy Quaid, il loop crazyhorsiano di Diana, lo strumentale Matchlight Arcana che chiude con una vena solare quasi inaspettata. Non un capolavoro, ma indispensabile per i fans del Nostro.
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